Vigne in Val di Non: bene! …Ma non sia un progetto industriale
02/08/2019 – di Lorenzo Cesconi
L’idea di un recupero diffuso della viticoltura in Val di Non non può che farci piacere. Non è certo una novità assoluta, perché è sufficiente guardare le carte ampelografiche austroungariche di fine ‘800 o ancora l’Atlante geocartografico di Cesare Battisti del 1915 per rendersi conto di come la vite fosse coltivata dalla Rocchetta fino a Castelfondo e perfino in Val di Sole fino a Malè. Non va nemmeno dimenticato che una delle prime Cantine Sociali nacque proprio a Revò. Il successivo sviluppo della viticoltura trentina, e la sua forte industrializzazione, ha portato ad una sua concentrazione nel fondovalle dell’Adige. Se ancora oggi la vite è presente in Val di Non bisogna dire grazie al lavoro di piccoli ed eroici Vignaioli, a cominciare dal compianto ma indimenticabile pioniere Augusto Zadra “El Zeremia”.
Come Consorzio Vignaioli del Trentino auspichiamo una nuova diffusione della vite in quelle che ad oggi vengono considerati territori secondari, come la Valsugana, le Giudicarie, l’alta Val di Cembra e per l’appunto la Val di Non. I segnali ci sono, sono nate recentemente nuove piccole aziende artigiane produttrici di vino, e auspichiamo che nei prossimi anni ne possano nascere tante ancora. Più saremo più il nostro sistema sarà forte ed attrattivo, anche in termini turistici.
La Val di Non ha sicuramente un potenziale vitivinicolo importante, e lo dimostrano i vini prodotti dai Vignaioli presenti sia nella zona di Spormaggiore che nella zona di Revò, che vanno dal metodo classico ai vini bianchi, dai vini rossi a quelli prodotti con varietà resistenti. Inoltre va detto che i cambiamenti climatici in corso obbligheranno sempre di più la viticoltura a spostarsi in alto e a ricolonizzare le aree di versante, e in tal senso la Val di Non rappresenta una grande risorsa per il Trentino, con un potenziale del tutto simile a quello che sta esprimendo la Val Venosta in Alto Adige.
Questa deve essere una scelta cosciente, un progetto di territorio. Se nasce come esigenza di diversificazione tutta interna a Melinda, o solo come reazione ad una possibile minor resa della frutticoltura, credo non sia il giusto punto di partenza. Fare vino richiede cultura e competenze diffuse. Non può essere insomma un progetto industriale e commerciale, ma richiede invece un forte investimento anche in termini sociali e culturali.
Il territorio e la qualità devono essere gli asset principali di questo progetto, come lo sono stati per l’appunto in Val Venosta o in alta Val d’Isarco. Servono scelte adeguate a valorizzare la montagna e ad esaltarne le caratteristiche. Penso ad esempio a vini bianchi come Riesling, Veltliner, Kerner; sicuramente Chardonnay e Pinot Nero per la creazione di un metodo classico di montagna; senza ovviamente dimenticare il groppello. Serve insomma una produzione in grado valorizzare le vocazionalità territoriali.
Foto Val di Non, fonte http://www.acquabuona.it
Immagine carta C. Battisti, fonte https://storicamente.org/proto_battisti_trentino